JOSHEF MATE'
Joshef Matè nato il 05/08/1966 a Carate Brianza. L’arte accompagna da sempre la sua vita anche se recente è il suo mostrarsi al pubblico. Dapprima artista writer, poi passato alla tela, all’entusiasmo nei confronti dell’informale e dei suoi più importanti esponenti, tra cui Mario Schifano, suo riconosciuto maestro. Come egli stesso sostiene la pittura gli viene incontro, è gesto naturale, necessità vitale che si esprime in maniera disinvolta e al contempo raffinata.
domenica 9 giugno 2013
mercoledì 2 novembre 2011
domenica 23 ottobre 2011
COMUNICATO STAMPA MOSTRA NEW YORK
J O S E P H M A T E’
“Campi liberi”
Le opere di Matè sembrano generarsi da un processo di formazione che si attua sulla tela, nella volontà di lasciar affiorare le sensazioni che gli urgono nell’animo. Cosicché il figurativo e l’informale non hanno più valore se non a livello di definizioni contingenti.
Dentro i suoi dipinti vive la libertà creativa, il bisogno prepotente di enunciare il proprio vissuto, in una totale spontaneità inventiva, che non può che svincolarsi da ogni formula estetizzante e ripudiare la ripetizione della realtà, per inventare le sue forme.
Il tema dei “Campi Liberi” racconta i giardini di una giovinezza non vissuta e solo osservata attraverso una finestra chiusa dietro il proprio dolore e la propria sofferenza.
Dietro quella che potrebbe apparirci soltanto una composizione cromatica e segnica, dietro l’esplosione del gesto che si fa ora più libero e veloce, ora più trattenuto e meditato, c’è il fervore della fantasia che opera le scelte orinandole in cicli, il desiderio di imprimere movimento o quiete al racconto, di lasciare autonomia all’ invenzione, fornendole però sempre quella disciplina che lega ad uno ad uno gli elementi dell’opera e che rende riconoscibile l’artista pur nei momenti differenti del proprio umore e della propria attività.
Ed ecco che ogni singola opera diventa il compendio dell’universo. Nei colori, nei bianchi o nei grigi, vive la scomposizione di tutti i colori che a Matè parlano della bellezza del mondo. Le forme scaturiscono improvvise e quasi casuali dall’automatismo del gesto (sia esso una pennellata o una spatolata). La preoccupazione non è più, come negli artisti a cui dichiaratamente si ispira (Santomaso, Vedova, Afro, Pollock), quella di eludere la mimesi della realtà, quanto piuttosto la necessità di dar voce alla dimensione emozionale della condizione umana in rapporto al creato, di cogliere e scoprire quel segreto che sempre è insito nelle persone e nelle cose e che si vorrebbe poter svelare per spingersi oltre l’apparente superficie di ciò che si mostra ai nostri sensi e alla nostra ragione.
CRISTINA PALMIERI
JOSEPH MATE’
“FREE FIELDS”
The works of Mate appear to be generated by a training process that takes place on the canvas, in the willingness to let emerge the soul sensations that urge. So the figurative and the informal have no value if not at the level of contingent definitions.
Within his paintings live the creative freedom, the overwhelming need to lay down their very lives, in a total inventive spontaneity that can only free itself from any aesthetic formulas and repudiate the repetition of reality, to invent forms.
Within his paintings live the creative freedom, the overwhelming need to lay down their very lives, in a total inventive spontaneity that can only free itself from any aesthetic formulas and repudiate the repetition of reality, to invent forms.
The theme of the “free field” says the gardens of his youth not lived and observed through a closed window behind his pain and suffering.
Behind what might appear only a composition of color and sign, behind the explosion of the gesture that is now more free and fast, now more restrained and thoughtful, there's the fervor of the imagination that operates the choices urinate in cycles, the desire movement or to give the story quiet, to leave autonomy to 'invention, but always giving it the discipline that links one by one the elements of the work and the artist that makes it recognizable even at different times of his mood. And so each work becomes the epitome of the universe. Colors, white or gray, lives the breakdown of all the colors that speak of the beauty of the world. The shapes arise by the automatism of the sudden, almost casual gesture (be it a brush or spatula). The concern is no longer - as in the artists who have avowedly inspired (Santomaso, Widow, Afro, Pollock) - to circumvent the mimesis of reality, but rather the need to give voice to the emotional dimension of the human condition in relation to creation, to appreciate and discover the secret that is always inherent in people and things and that artist would like to reveal to move beyond the apparent surface of what you show to our senses and our reason.
CRISTINA PALMIERI
Behind what might appear only a composition of color and sign, behind the explosion of the gesture that is now more free and fast, now more restrained and thoughtful, there's the fervor of the imagination that operates the choices urinate in cycles, the desire movement or to give the story quiet, to leave autonomy to 'invention, but always giving it the discipline that links one by one the elements of the work and the artist that makes it recognizable even at different times of his mood. And so each work becomes the epitome of the universe. Colors, white or gray, lives the breakdown of all the colors that speak of the beauty of the world. The shapes arise by the automatism of the sudden, almost casual gesture (be it a brush or spatula). The concern is no longer - as in the artists who have avowedly inspired (Santomaso, Widow, Afro, Pollock) - to circumvent the mimesis of reality, but rather the need to give voice to the emotional dimension of the human condition in relation to creation, to appreciate and discover the secret that is always inherent in people and things and that artist would like to reveal to move beyond the apparent surface of what you show to our senses and our reason.
CRISTINA PALMIERI
mercoledì 18 maggio 2011
Joshef Matè a cura di Cristina Palmieri
Le opere di Matè sembrano generarsi da un processo di formazione che si attua sulla tela, nella volontà di lasciar affiorare le sensazioni che urgono nell’animo. Cosicché il figurativo e l’informale non hanno più valore se non a livello di definizioni contingenti, perché l’artista intesse continuamente un racconto che non riesce a contenere le acque della vita. Dentro i suoi dipinti vive la libertà creativa, il bisogno prepotente di enunciare il proprio vissuto, il proprio mondo interiore, giacché, nel creare, non avverte altra urgenza se non quella di una pittura che si faccia racconto di personali suggestioni, in una totale spontaneità inventiva, che non può che svincolarsi da ogni formula estetizzante e ripudiare la ripetizione della realtà, per inventare le sue forme, le quali comunque e sempre denunciano – per echi lontani ma inequivocabili – le parentele, assolutamente inedite, fra il mondo immaginato ed il mondo vissuto.
Quanto Matè cerca di fare è immergersi così profondamente nella natura e nel creato da sentire la propria anima e tutto se stesso identificarsi con essi. A volte – soprattutto di fronte alle opere dipinte per questa mostra, volutamente dedicata al tema dei “Campi Liberi”, i giardini di una giovinezza non vissuta e solo osservata attraverso una finestra chiusa dietro il proprio dolore e la propria sofferenza – si ha l’impressione che tutta la sua saggezza consista nello scoprire che il mondo non è più grande di un prato. Perché in un prato ci può essere tutto, se si hanno occhi e cuore per osservare la grazia di un fiore, uno qualunque fra tanti, che diviene la testimonianza del miracolo della creazione, di tutta una realtà fuori di noi che troppo sovente diamo per scontata, perché possiamo viverla e carpirla.
Dietro quella che potrebbe apparirci soltanto una composizione cromatica e segnica, dietro l’esplosione del gesto che si fa ora più libero e veloce, ora più trattenuto e meditato, c’è il fervore della fantasia che opera le scelte ordinandole in cicli, il desiderio di imprimere movimento o quiete al racconto, di lasciare autonomia all’ invenzione, fornendole però sempre quella disciplina che lega ad uno ad uno gli elementi dell’opera e che rende riconoscibile l’artista pur nei momenti differenti del proprio umore e della propria attività.
In questi ultimi lavori, come in alcuni del recente passato, pare quasi che Matè sogni di dipingere ogni volta, ed in una volta sola, tutto l’incanto che la natura, un campo fiorito (il correlativo oggettivo di tutto un sentimento del mondo) scatenano nel suo desiderio di vivere quanto l’esperienza di una lunga malattia gli ha sottratto. La possibilità di una corsa in un prato, di una partita di pallone con gli amici al parchetto sotto casa, di una passeggiata tra il verde ed i profumi della primavera. Ed ecco che ogni singola opera diventa il compendio dell’universo: il bianco, i grigi su cui di volta in volta si innestano i colori dei fiori – quelli accesi e gridati, o quelli tono su tono, o addirittura quelli in bianco e nero – vogliono raccontare il grido che non può liberarsi dalla gola e dal cuore, perché l’anima lo trattiene. In questo bianco, o in questi grigi, vive la scomposizione di tutti i colori che a Giuseppe parlano della bellezza del mondo. E nell’imprevedibilità, nella continua invenzione delle forme, che scaturiscono improvvise e quasi casuali dall’automatismo del gesto (sia esso una pennellata o una spatolata), la preoccupazione non è più, come negli artisti a cui dichiaratamente si ispira (Santomaso, Schifano, Vedova, Afro, Pollock), quella di eludere la mimesi della realtà, quanto piuttosto la necessità di dar voce alla dimensione emozionale della condizione umana in rapporto al creato, di cogliere e scoprire quel segreto che sempre è insito nelle persone e nelle cose e che si vorrebbe poter svelare per spingersi oltre l’apparente superficie di ciò che si mostra ai nostri sensi e alla nostra ragione.
Resta perciò, in quanto è dipinto e rappresentato, soltanto un senso grafico e coloristico di quella che è la verità oggettiva, che viene piuttosto investita delle proprie trasfiguranti emozioni. E’ quasi come se il mondo oltre quella finestra – che da ragazzino si faceva simbolo della separazione fra malattia e normalità, fra desiderio e frustrazione, fra vita e dolore – fosse osservato attraverso un quinta di luce intensa, bianca, in cui contrapposti ed emergenti si stagliano le corolle, talvolta colorate e gioiose come la vita che si desidera afferrare, altre volte evanescenti come ombre lontane di ciò che non è e che, forse, un giorno, potrà essere. Ed in ogni opera spazia il binomio visione-idea, reale-ideale, i due termini del quale tendono a fondersi nella coscienza della propria unicità umana, del proprio particolare modo di aggredire la tela o la carta bianca, che concretizza , in ogni tormentato colpo di spatola, in ogni pennellata, nelle materiche colature che intessono la superficie di trasparenze e sovrapposizioni cromatiche, la possibilità di liberare inquietudini troppo a lungo trattenute.
L’arte, per Matè, la tecnica dell’informalità, non sono perciò un gioco, un divertissement, un puro esercizio estetizzante risolto nella ricerca di simmetrie fra segno, gesto e materia, quanto piuttosto la necessità di trovare nella libertà compositiva, nella luminosità che trascorre di tono in tono nelle pennellate e nei colori sovrapposti, spesso stratificati, quasi impastati, la proiezione del proprio sentimento esistenziale. Un sentimento che anela ad un equilibrio, ad una serenità che talvolta sfugge e si racconta nei fiori scarni e sanguigni, che a volte invece sembra raggiunta e vuole essere trattenuta nei dipinti privi di ogni enfasi, altre volte ancora liberata e enunciata nelle rapide e vivaci accensioni cromatiche di certi rossi, violetti, gialli, blu.
In questa mostra raramente troviamo momenti di abbandono a compiacimenti estetici. E’ piuttosto viva e costante l’ aspirazione a testimoniare la propria condizione di uomo di fronte alla realtà e alle sue contraddizioni, a quell’antico destino di dolore e fatica che sovente vi emerge, ma che può essere superato, vinto, sconfitto dalla fede nell’esistenza e nella conquista gioiosa che essa rappresenta. Come se si trovasse una corrispondenza stretta fra vita e cromatismo, fra le strutture del mondo trasposto liberamente sulle tele, di cui si riscopre il senso recondito proprio attraverso colori. I quali si compongono e sovrappongono in amalgami che rivelano il magma della vita, che creano essi stessi masse, contorni, prospettive, che donano luce od ombra, inventando lo spazio in una prospettiva quasi da sogno. Questo sogno si popola di fantasmi e di pensieri, muovendosi fra i meandri di una fantasia fanciullesca e i vortici di un incubo, fra il desiderio di gioia, di spazio e luminosità, che lo spirito insegue a tutti i costi, e le oscurità che ci ripropongono gli eterni interrogativi sulla precarietà dell’umano esistere.
Il modo con cui Matè tratta il colore, non campito a chiudere la forma, ma al contrario teso a realizzare ora accenti improvvisi, ora altrettanto repentini, profondi silenzi, patine e trasparenze, luminosità delicate e neri pesanti e corposi, testimonia la volontà di dar voce al continuo dialogo fra questi due estremi emotivi, salvando la possibilità dell’uno e dell’altro. In tale ricerca segnico-informale egli insegue il punto in cui la realtà e le forme, il senso ed il non-senso, le aperture e gli spettri possono incontrarsi mantenendo ciascuno il proprio potenziale significativo, cosicché i suoi fiori ora piangono un’amara malinconia, ora cantano l’ allegria della vita.
Cristina Palmieri
Marzo 2010
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